Questa è una breve storia d’amore e di tragedia. L’avventura sentimentale fra un uomo e una donna, gente d’altri tempi e altri modi, uniti da un destino durato lo spazio di poco tempo, troppo poco per diventare vita compiuta ma sufficiente per esser vita vissuta.
Eugenio Castellotti, la Ferrari e la Mille Miglia
Il giorno è il 14 marzo 1957, un giovedì banale di un autunno ormai proteso a diventare la sempre tanto attesa primavera. Da alcuni giorni Eugenio Castellotti, un giovanotto bello, alto, famoso e importante, fa la spola fra Firenze e Modena. Ha ventisei anni e mezzo, si trova nel pieno della carriera sportiva, è sotto contratto come pilota per la prestigiosa e vincente Ferrari, e la sua immagine reale lo testimonia meglio di ogni certificato di buona salute: Eugenio è in piena forma.
L’inizio di quel 1957 lo ha vissuto lontano dall’Italia, dall’altra parte del mondo, vagando fra Argentina e Cuba, fra Buenos Aires e L’Avana, con risultati alterni fra vittorie e ritiri. Fanno parte del gioco. Così come ha fatto parte del gioco, ma solo per pochi oltre a lui, la vittoria nella corsa più importante di tutte: la Mille Miglia. Sotto l’acqua che aveva imperversato sul Centro Italia dalla notte del 28 aprile al pomeriggio del 29 dell’anno prima, Eugenio era stato il più bravo di tutti. Lui e la sua Ferrari 290 MM.
Castellotti corre per essere l’erede di Alberto Ascari
Ma quello è ormai il passato, ora siamo nel 1957, la stagione che può confermare questo lodigiano dal carattere aperto come il degno erede di quell’Alberto Ascari di cui lui si sentiva, oltre che un ammiratore come tutti, il delfino designato, con la stampa in prima fila a ribadirlo in ogni articolo. Ma questo 1957 è anche il tempo in cui il suo interesse per una ragazza di un anno maggiore sta diventando un amore ricambiato, quello che in quel periodo così lontano da oggi si chiamava romanticamente ancora fidanzamento. Lei si chiama Odette Bedogni, attrice in piena rampa di lancio così come Eugenio lo è con il volante in mano. Proviene dalla provincia romana e ha, giustificate dal pubblico, anche ottime velleità di cantante e ballerina. Bella, spigliata, spiritosa e arguta. Non le manca niente, ma anche lei come Eugenio ha perso il padre quando ancora non era il momento. Troppo presto.
L’amore fra Odette Bedogni e Castellotti
Mentre Eugenio “lavora” a Modena e sulle piste di tutto il mondo, Odette, il cui nome d’arte è stato coniato in Delia Scala, “lavora” a Firenze e sui palchi di tutt’Italia. Non è facile incontrarsi per avere una vita in comune, cercare un attimo di pace dove potersi dire tutto e fare di tutto. Non è facile, ma il desiderio di vivere l’abbraccio aumenta la ricerca del tempo per viverlo. Ma la sua ricerca sottrae energie agli impegni presi con impresari e direttori sportivi. Che vuol dire tempo da abbassare sul giro per lui, tempo da seguire nel ritmo delle note per lei.
14 marzo 1957, un giovedì banale a cavallo fra gli Appennini che dividono la Toscana dall’Emilia, Firenze da Modena. La notte l’hanno passata insieme in uno degli alberghi in centro città, come giusto che sia per due che si amano e si bramano, anche in quell’Italia ancora legata al concetto di matrimonio puro. Lei, sposatasi poco più che ragazzina con un militare greco sbarcato in Italia durante la Seconda guerra mondiale, però a suo vantaggio si è vista annullare pochi mesi prima dalla Sacra Rota romana la prima unione fra marito e moglie.
L’appuntamento “clandestino” in albergo tra Castellotti e Odette
Lui invece, che di donne ne ha avute più d’una, è ancora celibe. Si può fare, non è così peccato. La mattina lui la saluta e baciandola le promette che appena si libera da quell’abitacolo che lo aspetta al di là delle montagne che dividono la penisola tornerà a stringerla a sé. Prende il treno delle otto e mezzo e prima dell’ora di pranzo è a destinazione, Aerautodromo di Modena, centro città. All’una la chiama, vuole sapere come sta. Lei lo rassicura ma ad Eugenio non basta. Tre ore dopo, un’altra telefonata. Non si smetterebbe mai di sentire la voce della donna che si ama.
I meccanici lo richiamano all’ordine. Anche Enzo Ferrari, che non è lì ma aspetta notizie nel suo ufficio della vicina cittadina di Maranello, è in contatto con gli uomini sul campo. Attende che gli comunichino un tempo migliore del nuovo record della pista scritto poche ore prima da un pilota della “nemica” Maserati. Sono le cinque del pomeriggio, iniziano a calare sole e temperatura. E forse anche l’attenzione di chi, a tutta velocità, deve fiondarsi fra rettilinei e curve in questo rettangolo d’asfalto dai cordoli alti e pericolosi.
Le telefonate, i giri in pista e quel cordolo assassino
Eugenio parte per un’altra serie di giri, quasi sicuramente l’ultima del programma giornaliero, quella che lo divide dall’ipotetico cartellino da timbrare per poi esser libero di tornare dalla donna amata, a Firenze. Ma quindici minuti dopo Eugenio finisce con le ruote anteriori su uno di quei cordoli assassini e la sua Ferrari s’impenna, scaricandolo prima in cielo e poi in terra. La rossa vettura finisce la folle traiettoria in una tribunetta che, fortunatamente, in quel momento è vuota. Lui pochi metri prima, sulla fredda terra. Paura, panico, morte. Tutto in un attimo, quello che da lì a poco serve a don Sergio Mantovani, il prete dei piloti, per segnare con la croce la fronte dell’agonizzante amico corridore.
Walter Chiari, il teatro di Firenze e “Buonanotte Bettina”
14 marzo 1957, un giovedì banale anche a Firenze. Sono le nove di sera e il sipario sta per aprirsi. Tutti ormai sanno, tutti tacciono, dietro le quinte così come in platea. Tutti in silenzio, seduti nelle loro comode poltrone prenotate da giorni. Walter Chiari, il protagonista maschile della commedia leggera dal titolo Buonanotte Bettina, si avvicina a Delia, la prende in braccio come da copione ed entra in scena. Il pubblico smette di stare in silenzio e alza un lungo applauso, scrosciante, rumoroso come può esserlo a volte un motore che urla il proprio fuorigiri impazzito. Delia trattiene dentro di sé l’emozione e inizia a recitare. Come da copione, perché la vita va avanti.
Enrico Mapelli