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Israele, terra di sogni e di conflitti, alla costante ricerca di un’identità propria da far conoscere per farsi conoscere. Oggi come cinquant’anni fa.
Estate del 1970, Tel Aviv. Due uomini d’affari tedeschi, Wolfgang Diemer e Inge Terpel, prendono contatti con le autorità israeliane per finalizzare l’idea di organizzare una corsa automobilistica, la prima in assoluto nella terra che fu di Abramo. Diemer è vicepresidente di uno dei più importanti automobil club germanici, oltre che editore di molte riviste, mentre Terpel è un industriale con vari interessi in Medio Oriente. Con i giusti appoggi si arriva a convincere sull’utilità della manifestazione il governo condotto dal primo ministro Golda Meir. Una donna a capo di un esecutivo, molto prima che in Europa ce la facessero le varie Margaret Thatcher, Angela Merkel e Giorgia Meloni. Cinquant’anni fa appunto.

Tel Aviv e Gerusalemme pensano al primo Gran premio

In Israele tutti, ma proprio tutti, sono digiuni di corse d’auto. Hanno voglia, e interesse, di far parlare di sé, di far arrivare qui turisti e giornalisti, ma non hanno idea di cosa voglia dire dar vita a un gran premio automobilistico. Perché di questo si sta parlando a Tel Aviv e Gerusalemme, non di un semplice raduno d’auto, più o meno prestigiose e potenti. L’ambizione è chiara: mettere in scena il primo Gran Premio d’Israele. Già il titolo è impegnativo, ancor più dovendo decidere dove e quando in una realtà completamente sguarnita in questo settore.

Ashkelon è una città che si trova a una cinquantina di chilometri dal centro nevralgico, e politico, dell’ancor giovane stato israeliano. Però è il luogo ideale perché s’affaccia sul Mediterraneo, il tempo è mite quasi tutto l’anno, e ci sono alberghi ben attrezzati. Mancherebbe la pista, ma per i locali sembra un particolare di poco conto, credono infatti che basti un nastro d’asfalto più o meno largo. Gli organizzatori locali scelti dal governo le infrastrutture degli autodromi del resto del mondo non se le sognano, proprio perché non le conoscono, per cui gli agganci, unita alla tenacia, dei due tedeschi diventano fondamentali.

Israele, le Formula 2 e le SuperVee tedesche

Dalla Germania arriveranno il direttore di gara, i commissari di percorso, e vari personaggi che sanno cos’è e come si gestisce un carosello di auto lanciate al massimo. Ma non può bastare perché vanno trovati anche i protagonisti indispensabili: piloti e macchine. Le monoposto di Formula 2 vengono preferite alle più attrattive, ma ben più costose, Formula 1. Il programma prevede corse anche per le piccole SuperVee, categoria propedeutica made in Germany. Dulcis in fondo ci sarà spazio per i piloti locali, che tutto sono meno che piloti, a cui vengono messe in mano semplici vetture da strada con un numero sulle portiere. Questi “avventurieri” dimostreranno tutta la loro inesperienza sfasciandosi quasi tutti lungo i quattro chilometri della pista alle porte della cittadina marittima.

Primo Gran premio di Israele: la nave che salpa dal porto di Genova

Sabato 13 novembre, porto di Genova. Sulla nave che salpa dalla capitale ligure è stato caricato tutto il necessario, umano e tecnico, che serve. Sei giorni dopo si comincia con le prime prove per adattare carburatori, traiettorie e bandiere alla novità assoluta di questo Gran Premio d’Israele. E subito nascono problemi, tanti e determinanti. Pista inadeguata e pericolosa, senza protezioni e riferimenti. Piena di sabbia portata dal vento, che di fatto la rende una piccola Zandvoort nell’angolo basso del Mediterraneo, ma senza la qualità organizzativa e protettiva dell’impianto olandese.

Come non offendere Maometto e Abramo: le chicane tra i giorni di pista

Box e paddock fatiscenti, con servizi che assolvono in minima parte allo scopo. Ma poi c’è dell’altro, che esula dallo sport ed entra nella vita pubblica di questo popolo. Venerdì è giorno di preghiera per gli arabi ma non per gli ebrei che invece, come precetto indiscutibile, hanno il loro giorno sacro in quello seguente, il sabato. Quello delle prove ufficiali. Questo non va bene agli ortodossi che, nonostante la discussione già avvenuta con relativa approvazione del progetto dal Parlamento, minacciano senza se e senza ma che invaderanno la sede stradale al minimo accendersi dei motori. Altre grane, inattese e al tempo stesso impensabili altrove, ma che però nella terra d’Abramo nell’anno di grazia 1970 per noi, 5731 per il calendario ebraico, vanno chiarite se non si vuole mandare a monte tutto. 

Gli incoscienti che attraversano la pista mentre non transitano le auto

Sabato 21, paddock del Barnea Beach Circuit, il nome della pista che in futuro dovrebbe rivalere con le varie Monza, Le Mans, Indianapolis. Diemer e Terpel capiscono l’antifona, fanno buon viso a cattivo gioco, e così caricano piloti, tecnici e ospiti vari su dei pullman, destinazione Gerusalemme, per una gita fuori porta e fuori caos. Ora di sera tutto, specie le contestazioni religiose, è rientrato e a questo punto, con pochi giri sulle spalle e molte incognite, il 22 è il tanto atteso giorno del primo Gran Premio d’Israele. Cominciano le piccole monoposto tedesche che vedono il pilota Helmut Bross presentarsi in perfetto abbigliamento da arabo sopra la tuta da gara. Quel giorno tutti risero della trovata, oggi chissà…

La ventina di SuperVee presenti scattano per la loro corsa prevista sui venti giri e, come usa dalle nostre parti, giustamente si danno “battaglia”. Solo che farlo in una pista circondata da misure di sicurezza adeguate, pur con tutti i limiti dell’epoca, è una cosa. Farlo in mezzo alle dune del lungomare israeliano dove a ogni passaggio la sabbia aumenta a vista d’occhio e gli spettatori del cosiddetto prato non sanno più come fare per sistemarsi, è un’altra cosa. Già è pericoloso per un ciclista delle grandi corse a tappe passare in mezzo a due ali di folla, ma se ci caliamo nei panni di un pilota lanciato a oltre duecento all’ora è quantomeno terribile. Infatti solo il caso evita di redigere una lista di feriti, se non addirittura di morti, fra i venticinquemila appassionati accorsi in riva al mare di Ashkelon. Per non parlare di quei “coraggiosi” incoscienti che attraversano la pista quando vendono che non arriva nessuno.

Sventola bandiera rossa, ma nessuno sa cosa voglia dire

Il direttore di gara intuisce che così non può funzionare e cinque giri prima della fine prevista sventola bandiera rossa. Segnale chiaro, per noi europei, che la gara è sospesa. Lì invece al momento non lo capiscono e cominciano a chiedersi cosa sta succedendo. Per la cronaca a vincere, o a sfidare meglio di tutti la sorte, è lo svedese Bertil Ross che anni dopo farà una fugace apparizione in Formula 1, ma che questa domenica di fine novembre è già felice di esser sceso sano e salvo dalla sua SuperVee.

In un clima sempre segnato dall’incertezza, sono proprio gli stessi due organizzatori tedeschi che salgono sulla prima auto disponibile e girano la pista invitando gli spettatori a spostarsi in posizioni più sicure, ammesso che ce ne siano in un circuito dove non esiste praticamente nulla, eccetto il nastro d’asfalto. Ma l’orologio non si ferma di certo e, come da programma, toccherebbe al tanto atteso Gran Premio d’Israele. I dodici piloti presenti, che vedono il Tino Brambilla partire davanti a tutti in base all’unica sessione di prove disputata, salgono perplessi sulle loro Formula 2 e prendono la via della pista.

Il “golpe” del Tino Brambilla: “Mi curi minga”

Il tempo di chiudere il giro di formazione che tutti rientrano in quelli che dovrebbero essere i box. Il commento del pilota monzese è chiaro e inappellabile: «Questi chi a in matt. Mi curì minga. (Questi sono matti. Io non corro)». Se già è difficile capirsi in inglese immaginarsi in dialetto brianzolo. Ma anche gli altri undici fra cui il fratello Vittorio e il francese Patrick Depailler, quest’ultimo al volante delle Tecno fresca vincitrice del titolo europeo nelle mani di Clay Regazzoni, recitano la stesso frase nelle rispettive lingue. I due tedeschi anche stavolta capiscono cosa sta succedendo e nell’arco di poco tempo prendono le loro cose, consigliando i tecnici delle squadre a fare altrettanto. Molto prima che il sole scenda sul lungomare di Ashkelon tutti sbaraccano, affondando di fatto la prima edizione del fantomatico Gran Premio d’Israele. Le migliaia di spettatori presenti, di cui solo un’esigua parte era passata diligentemente dal botteghino, non capiscono cosa sta accadendo e solo dopo un po’ realizzano che di gare non ce ne saranno più, almeno per questa domenica 22 novembre 1970. Per il futuro vedremo.

Nelle settimane seguenti le polemiche impazzano, sia in Europa, dove ci si chiede come si possano immaginare eventi così improvvisati, che nello stesso Israele dove, accanto alla pessima figura internazionale, si fanno i semplici conti economici aggiungendo, ma questo non è dimostrato, che i due uomini d’affari tedeschi l’affare lo abbiamo fatto soprattutto con gli ortodossi accettando un’ingente somma di dollari per tenere ferme le auto il sabato, Shabbàt in ebraico, giorno sacro per gli indigeni, molto meno per i forestieri.
Per la cronaca, ancor’oggi si attende la disputa del primo Gran Premio d’Israele. E sono già passati cinquant’anni, appunto.
Enrico Mapelli